Chi è G.Bertoni

Gaspare Bertoni. un santo per il nostro tempo

(Biografia di p.Lidio Zaupa)

PREFAZIONE

Quando incontri una persona piena di Dio, avverti un senso di gioia, di pace e di vitalità. Ti viene voglia di essere più buono, più coraggioso nel compiere il bene. Ti senti il desiderio di metterti al suo fianco e di fare qualcosa insieme, superando le usuali e meschine mediocrità.

Forse e per questo che i santi non sono mai soli, ma crescono a grappolo. Leggendo la vita di S. Gaspare Bertoni si rimane conquistati dalla sua figura. Don Gaspare e un uomo “riuscito”.

Come un capolavoro. Lo Spirito Santo lo ha potuto plasmare come voleva, trovando in lui la docilità. La sua esistenza e stata un continuo “si” a Dio che gli aveva tracciato, in verità, un cammino tutto in salita.

Don Gaspare amava ripetere una frase che lo ha sempre guidato: “Che cosa farebbe di noi Dio se non gli ponessimo impedimenti e resistenze!”

Già probabilmente il segreto della “riuscita” e questo. La sua avventura umana si svolge in momenti di grandi cambiamenti storici e attraverso situazioni difficili e dolorose.

Don Gaspare vive intensamente il suo tempo; si immerge nel suo ambiente, si rimbocca le maniche e da il suo personale contributo al rinnovamento della Chiesa e della società. Il suo esempio diventa contagioso: centinaia di giovani lo seguono, numerose anime sante lo cercano come guida spirituale, sacerdoti e laici lo affiancano nella sua infaticabile e vasta azione apostolica.

Preghiera, attività senza riposo, veglie, digiuni, lunghi studi, catechesi e predicazioni… Visite agli ammalati negli ospedali, tra i carcerati, tra i seminaristi e con i preti, tra i giovani, negli oratori e nella scuola, confessioni, consigli…

E lui, con uno straccio di salute, sempre attento, sempre sereno, sempre sorridente.

È un uomo “riuscito” e tutti lo vogliono conoscere, vedere, incontrare e parlargli. Per questo Paolo VI l’ha proclamato beato nel 1975 e Giovanni Paolo II santo nel 1989.

Sarei felice se anche tu incontrassi San Gaspare Bertoni attraverso queste agili e avvincenti pagine, scritte con amore da P. Lidio Zaupa, e rimanere contagiato dalla sua santità, desiderare conoscerlo ancor più profondamente e lavorare come lui, insieme con noi Stimmatini, che continuiamo la sua opera nelle diocesi e nel mondo.

P. Bruno Facciotti

 

GASPARE, SECONDO TRADIZIONE

Nel pomeriggio del 9 ottobre 1777, a un centinaio di metri di distanza dalla parrocchia di S. Paolo in Campo Marzo, a Verona, alle sedici precise, in via di Sotto ( oggi via Nicola Mazza),la signora Bertoni dava alla luce un bimbo che sarebbe diventato importante per la città di Verona.

Nessuno allora l’avrebbe immaginato, anche se molti del parentado se lo auguravano, perché‚ era stato atteso con impazienza.

Mamma Brunora aveva già deciso che, se fosse stato maschio, il suo nome sarebbe stato Gaspare. Tra gli antenati, altri con questo nome si erano distinti per acume e per capacità di gestire il notevole patrimonio Bertoni. L’ultimo fu il nonno del nostro Gaspare.

AMARA DIVISIONE

Mamma Brunora veniva da Sirmione, sul lago di Garda, e si era portata assieme ad una dote considerevole, la sensibilità squisita e la dolcezza dei lineamenti tipici della gente del lago. La sua vita sarebbe stata segnata da una profonda sofferenza, ma seppe superare con una forza d’animo davvero esemplare prove e difficoltà di ogni genere. Il padre Francesco, notaio pure lui per continuare una tradizione secolare di famiglia, non era un uomo facile. Duro ed esigente, esercitò ben poco la professione perché preferiva occuparsi delle numerose campagne che la famiglia possedeva in provincia, ad Illasi e Caldiero. Non fu certo buon amministratore se nel 1781 lo zio don Giacomo e il fratello Antonio vollero dividere i beni prima di vederli dilapidati dall’incapacità di quest’uomo rude. Iniziava così il calvario di mamma Brunora che dovette seguire il marito, deciso a rompere con tutto il parentado e ritirarsi al Gombion di Caldiero, nella piccola proprietà toccata alla famiglia.

 

TENEREZZA D’UN FIORE

Il soggiorno in campagna durò un paio d’anni. Fu un periodo felice e sereno per il piccolo Gaspare che cresceva a contatto con l’ambiente austero e semplice della vita contadina e con una natura che pian piano imparava ad amare e rispettare. Non aveva possibilità di compagnia: l’atteggiamento del padre, spesso scontroso nei confronti dei dipendenti, costringeva anche Gaspare ad una vita di solitudine. Gli spazi però riuscivano a dare al suo cuore di fanciullo panorami infiniti e una ricchezza smisurata di colori: da quelli opachi e brulli dell’inverno, a quelli delicati e dolci della primavera; dall’estate calda ed afosa, all’autunno ricco di frutti e di raccolti.

Un avvenimento rallegrò il cuore di Gaspare più di ogni altro in questo periodo: il 18 marzo 1783 nacque Metilde, più che una sorella, per la tenerezza e l’amore che Gaspare avrebbe sempre dimostrato per questo fiore destinato ad essere precocemente trapiantato nel giardino di Dio.

 

IMMAGINI DI TRISTEZZA

Nella strana estate di quell’anno la famiglia Bertoni, superati alcuni contrasti con la parentela, rientrava in città: per il piccolo Gaspare era giunto il tempo della scuola… un “lusso” che non tutti si potevano permettere.

Le condizioni di vita della Verona di fine Settecento infatti non erano certo floride: se nelle case dei ricchi non mancava nulla, in quella dei poveri si mangiava polenta e si “tirava cinghia”.

La maggior parte dei ragazzi cresceva per le strade, abbandonata a se stessa; si organizzava in piccoli gruppi che vivevano di espedienti o di accattonaggio. La scuola era un privilegio delle famiglie benestanti che potevano pagare un insegnante per garantire ai figli una cultura conveniente.

Al piccolo Gaspare non sfuggivano le immagini dei suoi coetanei con i calzoni rattoppati, la “rogna” pruriginosa e l’aspetto smunto. Una volta, al sarto di famiglia che gli stava confezionando un sofisticato modello alla moda, chiese, di nascosto dalla madre, un completo più semplice ed austero per non apparire troppo differente dai coetanei.

 

TRA DOLORI E GIOIE

L’11 novembre 1786 segnò una tappa drammatica nella vita di Gaspare. Il vaiolo, che infestava Verona, non aveva riguardo per nessuno. Metilde, tenera creatura di poco più di tre anni e mezzo, venne colpita dalla tremenda epidemia e in breve tempo si spense. Nelle ultime settimane di malattia della sorella, per la paura del contagio, Gaspare fu tenuto lontano dalla famiglia. Quando vi rientrò, nessun svago o passatempo poteva colmare il vuoto lasciato dalle grida festose o dai bronci appena accennati di Metilde. Fu una dura prova per Gaspare, legato profondamente alla sorella perché aveva riempito la sua solitudine.

Un’altra vicenda familiare avrebbe di riflesso influito molto nella formazione del carattere: l’incapacità del padre di gestire il patrimonio familiare che si era notevolmente ingrandito con le eredità avute dagli zii paterni, il notaio Ignazio e il sacerdote don Giacomo, scomparsi nei primi mesi del 1787. La pesante situazione incise soprattutto sulla madre e che, dopo la morte della piccola Metilde, aveva perso il gusto della vita: il suo volto era spesso segnato dalla tristezza. Forse anche per questo Gaspare appariva un ragazzo timido e remissivo in talune circostanze. Ma bastava uno strumento musicale tra le mani o gli spazi infiniti della campagna del Gombion per vederlo nuovamente brillante e vivace. Non ebbe mai problemi nel suo “Curriculum” scolastico: tutti gli insegnanti parlano di lui come di un ragazzo buono e capace, particolarmente sensibile nel campo musicale.

Verso la fine del 1788 Gaspare ricevette la prima Comunione. La memoria di quell’incontro restò viva per tutta la vita, se è vero che vent’anni più tardi, già sacerdote, annotava nel suo “Memoriale privato”: “Grandissima devozione e sentimento pari alla prima Comunione da fanciullo che non so più averlo provato dopo”.

 

ADOLESCENTE “ALLEGRO E FACETO”

L’adolescenza di Gaspare fu più serena della fanciullezza. La vita del quartiere lo interessava molto, come la scuola d’altra parte. Dopo aver frequentato regolarmente le classi di “Grammatica” (le nostre medie e superiori), iniziò gli studi di “Umanità” alla soglia dei quindici anni. Dalle testimonianze di alcuni compagni, si scopre il giovane Gaspare molto diverso dal ragazzo timido degli anni della fanciullezza. La sua intelligenza e le sue capacità hanno fatto di lui un leader “allegro e faceto”, come annota il compagno Don Giovanni Battista Conati. Sapeva tenere allegra la compagnia con mimi e imitazioni di personaggi importanti e conosciuti. La passione per la musica lo portava ad organizzare con i coetanei concertini vocali o strumentali, da lui diretti. S’era fatto un nome ormai e sapeva raggiungere gli amici anche al di fuori dell’ambito scolastico.

Quello che sorprendeva, tuttavia, era il suo strano interesse per il mondo della povera gente. Con chi lo seguiva (ed erano parecchi gi… a quel tempo) dopo il ritrovo allegro tra clavicembali e flauti, amava concludere la giornata presso la casa diroccata di un povero o al letto di un malato.

La profonda formazione spirituale che aveva ricevuto da padre Luigi Fortis (che diventerà in seguito il primo superiore generale della ricostituita Compagnia di Gesù) l’aveva innamorato dell’Eucaristia. Fin da adolescente non mancava mai la sua visita quotidiana in chiesa: era il mezzo più sicuro per deporre ai piedi del tabernacolo le sue gioie e le sue speranze e ritrovare la forza per superare le difficoltà tipiche dell’età adolescenziale.

 

UN INVITO IMPORTANTE

Finiti gli studi di Umanità (il nostro liceo), per Gaspare si aprirono parecchie prospettive.

Il padre, nel frattempo, pur continuando a prestare servizio nella cancelleria del Podestà, si guadagnava sempre maggior stima anche nel Collegio dei Notai, tanto da essere eletto come uno dei cinque “Esaminatori”. Le difficoltà familiari sembravano dunque superate e anche per Gaspare era giunto il tempo di prendere una decisione. L’attirava molto l’idea di una consacrazione religiosa e sacerdotale. Fu il parroco di San Paolo, don Francesco Girardi, che invitò decisamente il giovane diciottenne a fare un dono totale della sua vita al Signore. Gaspare vide nelle parole del parroco l’invito di Dio e non ebbe più esitazioni. Il 3 novembre 1795 iniziò a frequentare, come alunno esterno, i corsi di teologia in seminario.

 

CORAGGIO DEI VERONESI

La pace che Verona da lungo tempo gustava, era destinata in quegli anni a lasciare il posto alla violenza e alla guerra. Le idee rivoluzionarie della Francia giacobina erano giunte fin sulle sponde dell’Adige. Libertà, uguaglianza e fraternità erano sognate e desiderate da molti veronesi, costretti a vivere in situazioni drammatiche di povertà e di miseria. Ma il passo dalla rivendicazione alla violenza era breve, per cui anche a Verona scoppiarono tumulti e disordini. L’avanzata di Napoleone nell’Italia settentrionale non sembrava trovare ostacoli. Varcato l’Appennino ligure nel febbraio 1796, Bonaparte occupava la città scaligera nel giugno dello stesso anno. L’esercito francese lasciava alle proprie spalle morti e devastazioni di ogni genere. Verona stessa era profondamente divisa tra chi sosteneva il nuovo messia garante di libertà democratiche e l’antica Repubblica Veneta che tentava in ogni nodo di salvare istituzioni ormai anacronistiche. Nella lotta ideologica, chi ci rimetteva era la povera gente, anche perché i francesi non si erano resi per nulla simpatici alla maggior parte della popolazione. È ben facile immaginare cosa provocassero violenze e rapine perpetrate da un esercito intero.

Fu così che la città di Verona si ribellò ai nuovi “padroni”. Il 17 aprile 1797, lunedì di Pasqua, mentre il chierico Gaspare (solo qualche mese prima aveva ricevuto l’abito ecclesiastico e la tonsura dal vescovo Avogadro) stava accompagnando all’organo di San Paolo la celebrazione del vespro, si udirono i primi tuoni di cannone. I francesi avevano deciso di bombardare la città. Le campane a martello chiamarono a raccolta uomini e giovani d’ogni ceto che, in gruppi più o meno consistenti, iniziarono la caccia ai francesi. La violenza non risparmiò nessuno in quelle celebri “Pasque veronesi”. Alla fine si contarono i morti: più di cento francesi, ventisei i veronesi. La scintilla era stata provocata da una zuffa, nata in piazza dei Signori, tra alcuni soldati francesi e una pattuglia cittadina. La lotta fu di breve durata. Abbandonata a se stessa dalla Serenissima, Verona dovette cedere allo straniero che la occupava militarmente il 26 aprile. Tanto coraggio e tanto sangue non erano bastati per raggiungere una vera libertà.

TRA I FERITI DELL’OSPEDALE

In questo tempo di violenze, Gaspare aveva trovato modo di rendersi utile negli ospedali cittadini. Fu provvidenziale l’iniziativa di un prete veronese, don Pietro Leonardi, che attraverso un’istituzione da lui fondata, la “Evangelica Fratellanza” , garantiva gratuitamente l’assistenza agli infermi che si moltiplicavano di continuo. Uno dei primi membri fu don Carlo Steeb, tedesco di Tubinga, convertitosi dal luteranesimo qualche anno prima e consacrato sacerdote a Verona nel 1796. Accanto a queste due figure coraggiose della Chiesa veronese di fine Settecento il giovane Gaspare, con altri compagni del seminario, passava il tempo libero negli ospedali tra i feriti e gli ammalati. L’assistenza notturna gli venne richiesta più di una volta ed egli non si tirò mai indietro. Fu un periodo di grande generosità e di totale dedizione: una formazione umana e cristiana che, accanto agli insegnamenti della teologia, avrebbe prodotto una mente aperta a tutte le necessità della povera gente.

 

IN PREPARAZIONE

Durante il corso teologico, Gaspare fu impegnato, oltre che nello studio anche come catechista nella parrocchia di San Paolo. Gli vennero affidati i ragazzi che si preparavano alla prima confessione. Il suo parroco, don Francesco Girardi, ammirava il giovane chierico che non si limitava alle lezioni di catechismo ma amava, con il gruppo di ragazzi, progettare sempre nuove iniziative: un gioco assieme, una sosta ad un capitello con una breve preghiera, una visita con qualche dono ad un malato. La vocazione di “missionario dei fanciulli” era gi… chiaramente segnata.

Il Bertoni concluse il corso teologico a 22 anni. Era maturo ormai per la tappa fondamentale della sua vita. Il 9 marzo 1799 aveva ricevuto l’ordine del suddiaconato; un anno dopo, il 12 aprile, era ordinato diacono.

Le vicende familiari tornarono a turbare il giovane. Il padre, perso l’impiego in Comune quando ebbe termine la Cancelleria dei Rettori Veneti, si mostrava sempre più nervoso e, proprio nell’aprile 1800, i genitori decisero la separazione consensuale: un dramma che incise profondamente in Gaspare, anche se non ne volle mai parlare. Il 20 settembre, alla soglia dei 23 anni, dopo aver ricevuto la dispensa da Venezia, don Gaspare veniva consacrato sacerdote.

 

CITTÀ DI FRONTIERA

Non si poteva certo dire che la Chiesa veronese fosse carente di vocazioni a quel tempo. Solo nella parrocchia di San Paolo, che contava poco più di duemilacinquecento fedeli, operavano una dozzina di preti oltre ai numerosi religiosi. Il numero però non sempre fa la qualità di una pastorale.

La maggior parte del clero era impegnata nell’insegnamento privato presso le famiglie dei nobili o dei borghesi. Don Gaspare fu assegnato come cooperatore alla parrocchia natale. Le tensioni politiche erano ancora vive. L’esercito napoleonico aveva posto i suoi accampamenti appena fuori Verona.

Il trattato di Campoformido del 17 ottobre aveva sigillato la “vendita” del Veneto all’Austria. La città fu occupata dagli austriaci fin dal gennaio del 1798, quando le autorità cittadine presentarono in un bacino d’argento le chiavi al nuovo proconsole imperiale.

La tregua era solo fittizia perché le scaramucce tra i due eserciti, austriaco e francese, erano continue e numerose le battaglie per avere il sopravvento su Verona. Don Gaspare, che si prese cura particolarmente del mondo giovanile della parrocchia, si trovò di fronte una realtà drammatica. Le continue devastazioni degli eserciti avevano ridotto in miseria la maggior parte della popolazione. Le promesse di libertà, di uguaglianza, di benessere che giungevano di volta in volta dalle diverse sponde, erano puntualmente smentite da una situazione di malessere materiale e morale cui la gente era costretta. Di questo soffriva soprattutto il mondo dei giovani: la mancanza di scuole e la chiusura di ogni attività artigianale o commerciale aveva provocato disoccupazione e disagi di ogni genere: l’accattonaggio era diventato comune a molti, anche in giovanissima età: i piccoli furtarelli non si contavano più. C’erano bande di ragazzi e ragazze che scorazzavano per la città incutendo paura. Fu un dramma che sconvolse don Gaspare. Non si chiese cosa poteva fare, ma iniziò subito ad interessarsi dei giovani. Bastava una tettoia o un angolo di strada per la sua voglia di bene. Non furono grandi iniziative all’inizio: molta attenzione e disponibilità, una grande capacità di capire e dialogare, piccoli gesti di solidarietà.

A questo punto si vedono chiaramente tracciate le linee portanti dell’opera futura del Bertoni, anche se il “santo” a quel tempo non ne era ancora cosciente.

 

MISSIONARIO DEI FANCIULLI

Le disavventure per Verona non erano finite. Dopo un nuovo sopravvento dei francesi, la città fu divisa in due con il trattato di Luneville (9 febbraio 1801). l’Adige (che attraversa tutta la città da nord a sud con le pigre insenature che da Castelvecchio si distendono verso ponte Pietra) ne diveniva il naturale confine. Ai francesi spettava il centro storico ( circa 36.000 abitanti ); agli austriaci la riva sinistra, con tutti i castelli (poco meno di 20.000 abitanti: da qui il nome di Veronetta).

In questa strana situazione, che non sembrava trovare sbocchi immediati, don Gaspare vide un segno della Provvidenza nelle parole che un giorno il parroco, don Girardi, gli rivolse con tono deciso:” Oh, il mio don Gaspare – disse – mi avete l’aria di missionario!”. “Anche”, rispose il giovane cooperatore.

“Ma intendiamoci bene: missionario dei fanciulli”. “Ed io farò il missionario dei fanciulli”.

I primi ragazzi che cominciò a seguire (una decina, dai 12 ai 15 anni) erano quasi tutti analfabeti e già avviati come apprendisti di qualche mestiere. I primi locali che ebbe a disposizione furono l’archivio parrocchiale all’inizio e la biblioteca in seguito. Il giovane prete, entusiasta della nuova missione, inventava iniziative a getto continuo: buone letture per tenere uniti i ragazzi, salde esortazioni spirituali, momenti di intrattenimento e di gioco. Nasceva così a Verona il primo oratorio. Gli inizi non furono facili, anche se l’entusiasmo era tanto. Il baccano e il vociare dei ragazzi avevano messo a dura prova la pazienza della sorella del parroco e della perpetua. Col pretesto di urgenti restauri, il piccolo drappello dovette trovare un’altra sistemazione.

Accanto alla chiesa c’era una tettoia: poteva bastare per i primi tempi. Fu per questo che alla domenica, dopo la messa e la dottrina, preferiva portare il gruppo dei ragazzi a casa sua. Fino a sera restavano tutti insieme in sana allegria. Era soprattutto il gioco del Domino, molto in voga allora, che li teneva uniti. Ma ancor più era la carica umana e la sete di bene che guidava il giovane prete a condividere i momenti più belli con questi ragazzi. E non mancavano le occasioni per indirizzarli al bene: “Ah, se conoscessimo un poco solo chi è Dio!” amava ripetere. E concludeva: “Amiamo Dio, amiamo Dio”.

 

ALL’ORATORIO

Man mano che l’opera cresceva gli spazi non bastavano più perché il gruppo si era ingrandito. Anzi: erano tre ora i gruppi che don Gaspare seguiva, divisi secondo l’età. Poiché in canonica il posto non c’era, il Bertoni pensò bene di chiedere alle Suore Terziarie Minime di San Francesco di Paola, in via di Sotto, poco lontano dalla sua casa, un ambiente per accogliere i ragazzi. Così li poteva seguire tutti: i più piccoli in un locale attiguo alla sagrestia delle Terziarie Minime, i più grandicelli nella sagrestia e i giovani in chiesa. In breve tempo solo i giovani divennero più di quattrocento! L’impegno si faceva ogni giorno più gravoso per cui fu costretto a chiedere aiuto. Giunsero due chierici veramente capaci: Matteo Farinati e Gaetano Allegri. Con alcuni laici più preparati furono superate tutte le difficoltà. Lo scopo degli Oratori non era semplicemente quello di partecipare alla celebrazione della messa alla domenica mattina o al catechismo nel pomeriggio per santificare la festa, ma anche quello di intrattenere i giovani per tutto il giorno con canti e giochi. La spianata in Campo Marzo o Campo Fiore era quello che serviva al Bertoni: a pochi passi dalla parrocchiale, uno spazio vastissimo, che poteva contenere centinaia di ragazzi. Dopo il catechismo, sul far della sera, egli era lì, con tutti i suoi giovani, a correre e impolverarsi, pieno di entusiasmo per quel Regno di Dio che vedeva crescere attraverso fatiche e imprevisti di ogni genere. L’interesse non finiva alla domenica sera. Tutti gli iscritti all’Oratorio dovevano distinguersi per impegno e costanza, sia che frequentassero la scuola, sia che fossero avviati alle “arti e mestieri. Don Gaspare non accettava fannulloni. Per questo si adoperava lungo la settimana per trovare impiego a tutti i disoccupati e non si dava pace finché non li vedeva sistemati. L’ozio non aveva mai prodotto nulla di buono e lui lo sapeva bene. I frutti si notarono subito. Le famiglie non erano contente finché i loro figli non erano iscritti all’Oratorio. Gli artigiani, quando sentivano che un giovane era raccomandato da don Gaspare, erano ben felici di accoglierlo nella loro bottega.

 

IMPEGNI DELL’ORATORIO

Le iniziative si moltiplicavano. Accadeva spesso, ad esempio, che venisse allestita una specie di “mostra delle arti e dei mestieri”. Così chi lavorava dal sarto doveva presentare un nuovo modello di vestito, chi era impiegato dal fabbro una nuova serratura, chi dal calzolaio un paio di scarpe, chi da un pittore un quadro. I vincitori, ed erano sempre tanti perché la varietà delle creazioni era multiforme) venivano salutati da un vivace battimani tra cori di “bravo” ed “evviva” degli oratoriani. Le “opere d’arte” venivano poi esposte in un luogo adatto perché potessero essere da tutti ammirate e lodate. Per don Gaspare l’obiettivo ultimo era quello di portare i giovani alla frequenza dei sacramenti. L’incontro con Dio era il motivo di tutto il suo lavorare. Così non mancava mai, alla fine dei giochi, una visita in chiesa a Gesù Eucaristia: qui si ritrovava la forza per vivere sereni.

Alla messa domenicale e al catechismo nessuno doveva mancare: erano impegni che diventarono categorici, nei giorni di festa, per tutti gli iscritti. Anche sulla purezza in tutte le età e per tutti si insisteva di continuo.

“Attraverso la purezza – diceva – nel cuore dell’uomo si edifica il tempio vivo dello Spirito Santo; anzi, il corpo stesso diventa strumento della gloria di Dio e più ancora sua dimora”.

 

“COORTE MARIANA”

L’Oratorio di S. Paolo divenne famoso in tutta la città. I pastori più zelanti si interessarono per sapere se l’esperienza poteva esser diffusa. Il lavoro era destinato a crescere enormemente. Nacquero in breve gli Oratori di S. Stefano, dei Santi Nazaro e Celso, di S. Anastasia e di S. Giorgio. C’era un gruppo speciale di giovani, gli “Aggregati”, che accompagnavano don Gaspare in queste spedizioni. Il Bertoni provvide al coordinamento istituendo una struttura particolare che chiamò “Coorte Mariana” per la particolare protezione che aveva chiesto a Maria per i suoi giovani.

Era un’idea che precorreva i tempi, assunta nel nostro secolo dal movimento dell’Azione Cattolica. La Coorte Mariana, infatti, era divisa in Seniores, in Juniores, Alunni e Fanciulli che corrispondono ai Seniores, Juniores, Maggiori e Minori dell’Azione Cattolica di oggi.

Sono parecchi altre le analogie che qui non approfondiamo. Ma l’intento era lo stesso: rendere sempre più cristiani quei settori della società, soprattutto nell’ambiente giovanile, che potevano essere facile preda della mentalità distorta di un certo mondo di allora che professava non la libertà ma il libertinaggio, non l’uguaglianza ma l’egualitarismo.

 

GLI “AGGREGATI”

L’impegno divenne ancora più faticoso quando cominciarono ad arrivare richieste di fondazione di Oratori fuori città. Il Bertoni non si scompose. Gli “Aggregati” erano sempre disponibili; partivano divisi in ” decurie “(che non volevano superare le dieci unità per favorire il senso di appartenenza) per giungere sul far della sera, a destinazione. In prossimità del paese, le varie “decurie” si ricomponevano per l’ingresso nell’abitato al canto degli inni della Coorte Mariana. L’accoglienza era sempre frugale a base di polenta e fagioli, qualche canto e gli ultimi ritocchi al cerimoniale previsto per l’avvio del nuovo Oratorio, precedevano le poche ore di sonno che i giovani si concedevano su un po’ di paglia.

Don Gaspare non mancava mai a queste spedizioni. Non solo perché credeva fortemente nell’efficacia del “contatto tra i simili” per cui i giovani “Aggregati” diventavano invito e modello possibile per i nuovi giovani che accostavano, ma perché accompagnava con la sua preghiera la buona riuscita di ogni spedizione. Rubava in queste occasioni molte ore al sonno per vegliare nella preghiera e affidare alla protezione dei santi in Paradiso le sue “decurie”.

Il cerimoniale del giorno dopo si apriva con una solenne processione cui partecipavano i giovani oratoriani assieme ai giovani del luogo: era quasi una marcia di sapore militare che nascondeva dietro le apparenti movenze da soldati una volontà ferma di professare la propria fede pubblicamente.

Giunti in chiesa dopo aver percorso tutte le vie principali del paese, i giovani oratoriani si inginocchiavano sul nudo pavimento e continuavano i loro canti e le loro preghiere: la pietà popolare semplice e schietta della gente di campagna non faceva fatica ad accogliere il nuovo movimento. Il momento più solenne giungeva quando don Gaspare prendeva la parola dal pulpito: erano appassionati appelli a seguire la strada che Cristo aveva tracciato, inviti insistenti a mettersi sotto la protezione di Maria.

Per don Gaspare non esistevano le mezze misure: un giovane che si era dato a Dio, lo doveva rivelare chiaramente con la sua vita. L’aggregazione all’oratorio diventava un mezzo potente per non sentirsi soli. Sarà una caratteristica costante del Bertoni quella di camminare nella fede sempre in compagnia: da giovani prete con i giovani, nell’età matura in una comunità religiosa.

 

IN CARCERE

C’è un’altra attenzione che non va dimenticata nel giovane cooperatore di San Paolo: è quella per i carcerati rinchiusi allora nel vicino convento di santa Maria della Vittoria dei Gerolamini. Anche a quel tempo le carceri erano sovraffollate. Detenuti politici, delinquenti comuni, minorenni deviati: era un’umanità disparata che messa insieme non faceva altro che moltiplicare disagi e violenze di ogni genere. Don Bertoni era familiare tra i carcerati: le sue visite erano attese e sperate. Il suo biografo ricorda che “nelle carceri visitava e confortava il traviato e, con la dolcezza dell’esortazione e dell’istruzione, lo invitava non solo a sopportare con pazienza il castigo meritato, ma a ringraziare il Signore perché, nella sua sapienza e carità, si era servito di quel mezzo per ricondurlo sul retto sentiero, ridonando una libertà migliore, quella della grazia di Dio”.

CAPPELLANO D’OSPEDALE

Nel 1806 le autorità pubbliche decisero di aprire un piccolo ospedale presso la Torre del Battello della Vittoria, per i carcerati ammalati. Non potendo disporre di denaro liquido, i fondi che la “Cassa Regia” aveva destinato per i ricoverati erano minimi. A garantire il funzionamento, fu chiamato il giovane don Gaspare per l’interesse e l’impegno che aveva prodigato per questa umanità umiliata e sofferente. Se era difficile l’incontro con i “sani”, diventava ostico quello con gli “ammalati”: ogni speranza andava delusa, si moltiplicavano le imprecazioni per una vita avara di soddisfazioni, si malediceva Dio per un destino così amaro. Ci volle tutta la pazienza e la carità del giovane prete per dare un po’ di serenità ad un ambiente votato alla disperazione e alla morte. Non si perse d’animo: col medico preposto alla cura degli ammalati, il dottor Giuseppe Barbieri, iniziò un’opera di assistenza e di conforto che portò un po’ di serenità e di rassegnazione in tante anime in pena. Non si limitava alle parole: quel poco ormai che aveva, lo impegnava per far arrivare ai più bisognosi qualche minestra di fagioli calda o qualche polenta.

 

DIARIO O “MEMORIALE PRIVATO”

Un’attività così frenetica potrebbe far pensare ad un uomo di poca preghiera. Non fu così in don Gaspare. Oltre ai consueti momenti della celebrazione della messa, della meditazione, della lettura spirituale, della recita del Rosario e della visita eucaristica, il giovane prete sapeva sacrificare i momenti del sonno per immergersi nella contemplazione del mistero di Dio. Ce lo confermano le annotazioni che a partire dal primo luglio del 1808 consegna al suo “Memoriale privato”: un diario spirituale che non supera complessivamente le venticinque pagine, ma fondamentale per capire l’anima di questo santo. Il cammino di perfezione che il Bertoni si era posto come obiettivo fin da ragazzo, conosce in questo periodo tappe sempre più profonde e significative.

“Cercar Dio solo, veder Dio in tutte le cose: questo è un farsi superiore a tutte le cose umane” (30 luglio 1808). È la traduzione concreta, nella vita, delle parole di Gesù: “Voi siete nel mondo, ma non siete del mondo”.

 

ANIME GRANDI

A fissare le tappe nel cammino verso la santità deve aver contribuito il clima di impegno sociale e religioso che alcune persone di spicco portavano avanti con coraggio e coerenza nella Verona dell’inizio Ottocento. Abbiamo visto don Gaspare ancor giovane studente di teologia unirsi alla “Evangelica Fratellanza” fondata, per l’assistenza gratuita agli ammalati, da don Pietro Leonardi, che assieme a don Carlo Steeb si prese a cuore la cura dei poveri e dei sofferenti. Oggi il carisma di don Leonardi continua nell’opera caritativa delle “Figlie di Gesù”, mentre l’amore e la dedizione per gli ultimi, propri di don Carlo Steeb, si ritrovano nella presenza instancabile e preziosa accanto agli ammalati di ogni lingua e razza delle “Sorelle della Misericordia”.

Più tardi il Bertoni avrà modo di accostare altre due anime grandi della Verona di allora: Maddalena di Canossa e Leopoldina Naudet.

L’8 maggio del 1808 le due donne entravano insieme nel convento dei Santi Giuseppe e Fidenzio per avviare due opere distinte: la prima creava l’Istituto delle Canossiane che si sarebbero prese cura delle ragazze povere ed abbandonate, la seconda meditava la fondazione di un’opera per l’educazione e la formazione per lo più di ragazze di famiglie agiate e nobili.

Don Gaspare, prete poco più che trentenne, fu nominato primo confessore e direttore spirituale dell’opera.

 

ANTICLERICALISMO

Città di confine, contesa da francesi ed austriaci, Verona era destinata a non conoscere una pace duratura ancora per diversi anni. Eserciti in assetto di guerra la attraversavano continuamente e i feriti dai vari fronti giungevano sempre più numerosi negli ospedali della città. La disfatta del principe Eugenio il 6 aprile 1809, faceva presagire una rotta di tutto l’esercito francese. Erano in molti, soprattutto in ambito ecclesiastico, a sperarlo anche perché l’anno prima Napoleone, attraverso il generale Mollis, aveva fatto occupare parte dello Stato Pontificio e costretto Pio VII all’esilio forzato a Savona. L’anticlericalismo, che fondava le sue radici nelle nuove dottrine dell’illuminismo e della rivoluzione, si andava radicando anche negli strati più aristocratici della città. I continui successi militari del generale Bonaparte parevano confermare sul campo la bontà delle nuove dottrine.

 

SORVEGLIATO SPECIALE

L’esperienza degli Oratori aveva avuto una brusca frenata ancora nel maggio 1807, quando un decreto del governo italico aveva proibito in tutto il Regno “le confraternite, le congregazioni, le compagnie ed in genere tutte le società religiose laicali…”.

Il Bertoni dovette togliere ogni forma di organizzazione esterna e continuare l’attività solo in ambito parrocchiale anche perché divenne un sorvegliato speciale del direttore di polizia, Alessandro Torri, che non tralasciò ” diffide, minacce, sospetti, note di vigilanza particolare su don Gaspare Bertoni”.

L’impegno ridotto degli Oratori gli permetteva un’assistenza più continua ai feriti e malati che continuamente giungevano in città. Ormai gli ospedali non erano più sufficienti per contenere il numero crescente dei pazienti. Furono i conventi e le chiese allora che aprirono le porte per accogliere i bisognosi. Don Gaspare, che conosceva bene il francese, si mise a disposizione della “Fratellanza degli Spedaglieri” per ogni necessità.

L’esperienza con i feriti gli suggerirà un’immagine plastica per il suo “Memoriale privato” (6 marzo 1809). “Il mondo presente è un grande ospedale di infermi: tutti si lagnano e nessuno guarisce sebbene sia pronta la medicina. Questa è l’orazione: la quale o non si fa o si fa male”.

 

DISTACCO SOFFERTO

Il suo impegno era dettato dalla volontà di conformarsi in tutto a Cristo Signore.

“Dio – scriveva il 16 febbraio 1809 – non ci giudicherà secondo le massime del mondo e neppure secondo le opinioni di alcuni teologi più benigni, ma secondo il Vangelo”.

Agli inizi del 1810 il Bertoni veniva colpito dal lutto familiare più grande: in poche settimane la mamma Brunora, affetta da idropisia al petto, si aggravava rapidamente. Il figlio, che aveva sempre dimostrato un attaccamento profondo alla madre, non fece mai mancare la sua presenza amorosa e tenera al capezzale dell’inferma. Negli ultimi anni era diventato anche il suo confessore per cui, quando fu il momento, don Gaspare le amministrò gli ultimi sacramenti e tutti i conforti della fede. La Signora Brunora Ravelli si spegneva serenamente alle 7.30 del 6 febbraio 1810.

 

UNA CHIESA DIVISA

Dopo la morte della madre, don Gaspare decise di andare a vivere con la sorella di lei, la zia Rosa Ravelli, sposa di Giuseppe Scudellini, alla destra dell’Adige, nel palazzo Rizzardi, la cui facciata da’ sullo stradone San Fermo.

Molte cose stavano cambiando nella vita di don Bertoni, anche per le vicende politiche che continuavano a turbare l’Italia in quel periodo.

Il 25 aprile del 1810 Napoleone, con un decreto di soppressione di tutti gli ordini religiosi maschili e

femminili, infliggeva un colpo durissimo alla vita stessa della Chiesa. L’intento era quello di colpire le forze religiose più vitali per addomesticarle alla sua volontà.

I pericoli che ne derivavano erano molti. All’interno della Chiesa stessa non mancavano divisioni e sfasature: cardinali rossi o neri, a seconda della loro adesione al Papa o all’Imperatore; sacerdoti interessati più alla carriera o all’accumulo di ricchezze che al servizio pastorale; fedeli sconvolti dall’incredulità e dal malcostume. Si rendeva sempre più urgente un profondo rinnovamento che partisse prima di tutto dall’interno stesso della Chiesa.

 

SEMINARIO IN PERICOLO

Verona non era esente da tali pericoli: il 26 gennaio 1809 il Vescovo Liruti (succeduto ad Avogadro nel 1808) aveva emanato una lettera pastorale in cui proibiva ai sacerdoti di “andare in maschera, di frequentare teatri, commedie e balli” sotto pena della sospensione immediata “a divinis” (la proibizione di esercitare il ministero sacerdotale).

La stessa vita del seminario era stata seriamente compromessa da un pessimo pro-rettore, don Giuseppe Velli, che fu allontanato dal suo incarico con l’intervento della polizia. Il padre Cesare Bresciani, riferendosi nel 1806 alla vita del seminario, scriveva: “Non si poteva dire che quello era un seminario di disciplina e di giustizia, ma piuttosto un miscuglio di corruzione dei costumi e di disordine”. È facile immaginare in quale situazione si trovassero i chierici e come le ferite illuministiche fossero ancora aperte. Fu allora che il Vescovo pensò a don Gaspare.

All’inizio di maggio del 1810 mons. Liruti parlò al Bertoni, manifestandogli il proposito di affidare alla sua sapienza e capacità di discernimento la direzione spirituale dei chierici. Il nostro santo tentò a più riprese di presentare le difficoltà e i limiti della sua persona per un incarico così delicato, ma la fermezza del Vescovo non conobbe ostacoli.

 

DIRETTORE DI COSCIENZE

Iniziò il nuovo impegno con la predicazione degli esercizi spirituali nel settembre di quello stesso anno. Erano presenti 143 studenti interni e 25 esterni di cui 60 in teologia, oltre a diversi sacerdoti che approfittarono di quella occasione per ritemprare il loro spirito.

Il Bertoni senza mezzi termini denunciò la situazione pesante di alcuni ecclesiastici di vita mondana, fatta di frivolezze e di vanità. Ma c’era un’altra cosa che lo infastidiva: l’abitudine di alcuni membri del clero di andare a “mendicare aiuti e protezione presso i ricchi e i potenti a prezzo di un servilismo degradante “. Don Gaspare, che attraverso la preghiera aveva raggiunto un’unione con Dio veramente intensa e singolare, non fu capace di risparmiare duri rimproveri a chi non sapeva dare un po’ del proprio tempo a Dio.

“I chierici – scriveva – si esercitano negli studi, non nell’orazione”. E ancora: “Rarissimi sono coloro che meditano ai nostri giorni e si burlano facilmente e trattano da spirituali coloro che si occupano di questo santo esercizio”.

Per anni il Bertoni svolse questo incarico di direttore spirituale. Accanto alla confessione e al dialogo personale, ogni domenica mattina in seminario dettava la meditazione.

UNA MEDITAZIONE PARTICOLARE

Nel racconto di uno dei suo figli spirituali più cari, il padre Bragato, si legge. “Voi sapete che il nostro venerato padre don Gaspare tenne per molti anni una meditazione di buon mattino ogni domenica a tutti gli alunni chierici del seminario. Egli si portava al seminario la sera prima dove trovava allestita per lui una stanza con un buon letto, vicino alla cappella. Ora sappiate che una volta io fui invitato a tenergli compagnia assieme a don Gramego. Verso le nove di sera partimmo tutti verso il seminario : via facendo potemmo comodamente recitare in comune le orazioni della sera. Giunti in seminario ed entrati nella stanza di don Gaspare, dopo qualche chiacchiera, egli ordinò a don Gramego e a me di coricarci. Coricati che fummo, don Gaspare si mise a capo del letto, disse le parole del Salmo “in pace in idipsum dormiam et requiescam” (Sal.4,9 = in pace mi corico e subito si addormento) e spiegando queste parole ci tenne uno di quei discorsetti che voi sapete, pieno di unzione e di sapienza. Ciò fatto, preso il lume, si portò nella vicina cantoria della Cappella a meditare davanti al Santissimo Sacramento la meditazione che doveva fare la mattina dopo ai chierici. Abbandonata verso le ore dieci la camera, io non so se vi sia più ritornato. Noi ci abbandonammo ad un dolce sonno e, svegliati al mattino, non vedemmo don Gaspare che in Cappella. E questo credo che fosse il suo costume in tutte le notti del sabato”.

Il rinnovamento del seminario non fu facile: costò fatica e preghiere continue al Bertoni ma anche consolazioni, se lo storico Sommacampagna nel 1815 poteva scrivere: “Il Seminario è un monastero di monaci più che di giovani ecclesiastici” tanto traspariva l’ordine, la disciplina e gli ideali più sublimi dei consigli evangelici.

 

UN DESIDERIO DI VITA COMUNE

A contatto con queste esperienze cominciò a fasi luce nel Bertoni l’idea di una fondazione. E’ in questo periodo che con più assiduità egli cominciò a radunare in casa sua alcuni preti, prendendo come pretesto lo studio della teologia. I primi furono Matteo Farinati, Gaetano Allegri e Giovanni Maria Marani, cui si aggiunsero in seguito Nicola Mazza e Luigi Bragato. Non erano solo approfondimenti biblici o sulla teologia morale di San Tommaso o di Sant’Alfonso, ma letture anche di classici della letteratura italiana: Dante, l’Ariosto, il Tasso.

La cautela tuttavia non era mai troppa. La polizia vigilava su ogni raduno sospetto: ogni incontro, fosse anche per svago o divertimento, era proibito.

L’esperienza comunitaria matura lentamente nel Bertoni il desiderio di condividere con altri preti e chierici uno stile di vita religiosa più intensa. Si fa più chiara l’opera a cui Dio sta per chiamarlo: vivere con alcuni fedelissimi lo spirito dei consigli evangelici. È straordinaria la carica profetica che l’accompagna: in un periodo in cui tutti gli Ordini religiosi sono soppressi e tutte le istituzioni cattoliche sono messe al bando, egli avvia un’esperienza, solo parziale al momento, di vita comunitaria, di confronto e di impegno con alcuni tra i più zelanti ecclesiastici di allora.

 

LE SORELLE

Leopoldina Naudet era nata a Firenze nel 1773 da padre francese e madre austriaca, addetti alla corte del granduca Leopoldo I di Toscana. Divenuta con la sorella Luisa istitutrice dei figli più piccoli dell’arciduca, seguì a Vienna Leopoldo quando salì al trono imperiale. Dopo la morte dell’Imperatore, si trasferì nel palazzo reale di Praga per dare avvio nel 1799 all’opera delle “Dilette di Gesù “che aveva per scopo l’educazione delle ragazze nobili. Dopo alterne vicende e peregrinazioni per tutta Italia per trovare una giusta sistemazione, su invito del Canonico Luigi Pacifico Pacetti, Leopoldina si trasferì nel maggio del 1808 a Verona per collaborare con la Marchesa Maddalena di Canossa nell’opera che allora stava avviando per l’accoglienza e l’educazione delle ragazze povere della città. Confessore al Ritiro di S. Giuseppe era don Gaspare: per vie misteriose Dio aveva fatto incontrare il Bertoni e la Naudet che avrebbero dato vita a due diverse opere, a pochi metri l’una dall’altra: quasi un unico Istituto, tanto simili per stile, vita e campi di apostolato. Don Gaspare in questi anni sarà il direttore spirituale fidato e saggio di Leopoldina tanto che i suoi orientamenti e consigli saranno determinanti nell’avvio dell’opera della Sacra Famiglia.

 

UN CATTIVO ESEMPIO

La vita di alcuni preti veronesi continuava ad essere poco esemplare. Il Vescovo Liruti, uomo di polso e pastore zelante, superate alcune esitazioni che gli derivavano dal timore di intromissioni e proteste laicali, rinchiuse alcuni di questi Ecclesiastici in seminario perché attraverso la penitenza e la conversione, ritrovassero le motivazioni profonde della loro vocazione sacerdotale.

L’ultimo fatto che lo decise alla drastica soluzione fu una comunicazione del giudice istruttore Marani che il Vescovo ricevette il 4 novembre 1812. Veniva informato che il sacerdote Angelo Allegri, ex frate dei Gerolamini della Vittoria, era stato rinchiuso in carcere per aver avvelenato la propria madre nel tentativo di procurare la morte al fratellastro. Proprio in quell’anno, il 21 aprile, durante la visita pastorale a Isola della Scala, il Vescovo annotava in un suo registro particolare: “Allegri, di messa strapazzata… Allegri va a giocar al caffè, fa contratti più che usurai”. Fu proprio la sete di denaro che suggerì a questo sciagurato l’avvelenamento del fratellastro, ricco possidente di Pescantina. A morire, per sbaglio, fu invece la madre.

 

AMMALATO

Il Bertoni, verso la fine di ottobre di quell’anno, fu colpito da una gravissima malattia infettiva, la miliare, con “febbre alta, vivo senso d’angoscia precordiale, costrizione epigastrica ed esantema mobiliforme terminante in desquamazione” come diagnosticò il medico di famiglia, lo zio dottor Ravelli. In pochi giorni fu in fin di vita. La sera del 25 ottobre dettò le sue ultime volontà al notaio Gianfranco Buongiovanni presenti don Nicola Galvani, don Matteo Farinati, don Gaetano Allegri e don Michele Gramego.

Il suo primo biografo ricorda che “sebbene giovane sacerdote, don Gaspare era in tanta stima e venerazione presso il clero, in tanto affetto e devozione tra il popolo, che fu un pregare concorde perché il Signore donasse la salute ad un ministro così operoso, ad un’anima così cara e preziosa”.

Due giorni dopo don Gaspare era fuori pericolo: il progetto a cui Dio lo stava indirizzando era stato appena abbozzato e non era ancora giunto il momento della chiamata definitiva.

 

UNA BRUTTA STORIA

Una delle prime visite dopo la malattia fu al Vescovo. Quando mons. Liruti lo vide in episcopio, si rallegrò per la prova superata e gli confidò che stava meditando di affidare alla sua direzione spirituale oltre ai chierici, anche quei sacerdoti che egli aveva rinchiuso in seminario per correzione. Il nuovo incarico gli impedì di continuare il servizio di confessore al Ritiro di San Giuseppe. Ora il suo interesse era rivolto quasi esclusivamente al seminario: Dio l’aveva chiamato ad un ministero impegnativo e delicato, alla guida di anime sante, ma anche di impenitenti incalliti.

Don Gaspare lo sperimentò direttamente quando l’ex prete Angelo Allegri fu condannato a morte per l’avvelenamento della madre. Lo sciagurato non voleva ravvedersi in nessun modo. Alcuni sacerdoti tentarono invano di avvicinarlo per convincerlo ad implorare il perdono di Dio. Lo scandalo in città era grande. Alla fine il Vicario generale Mons. Dionisi decise di rivolgersi al Bertoni in un estremo tentativo di ricondurre quell’anima alla grazia di Dio.

Il 25 giugno del 1813, di buon mattino, dopo aver celebrato la messa e aver sostato a lungo in preghiera, don Gaspare si diresse alla prigione. Quando l’Allegri lo vide, fu talmente scosso dalla visita inaspettata che esclamò: “Ecco. questi è colui che mi mette in grazia di Dio!” Che cosa il condannato avesse visto in quest’umile prete dimesso, non ci è dato di conoscerlo. Sappiamo che quando l’Allegri era padre sacrista della chiesa di santa Maria della Vittoria, aveva avuto modo di conoscere direttamente lo zelo e la pietà del Bertoni.

Quel mattino l’ex prete si buttò in ginocchio e tra le lacrime depose il pesante fardello dei suoi peccati ai piedi di quel santo. Qualche giorno dopo, l’8 luglio, alle due del pomeriggio, la sentenza capitale veniva eseguita in piazza Navona (ora Viviani).

 

NUOVI CAMBIAMENTI

Le vicende politiche per Verona stavano nuovamente cambiando. I rovesci napoleonici avevano determinato una nuova geografia che vedeva ora l’Austria dominare la scena europea. Il 4 febbraio 1814 gli austriaci entravano da vincitori in Verona per prendervi stabile possesso. Il Congresso di Vienna che aveva costituito il Regno Lombardo-Veneto come propaggine dell’impero austro-ungarico, era stato salutato entusiasticamente dalla maggior parte dei veronesi. Il Vescovo Liruti ringraziava in un suo messaggio l’Augusto Imperatore Francesco I perché con il nuovo assetto politico aveva portato “cieli nuovi e terra nuova a Verona”. Durò poco tuttavia questo entusiasmo perché il Vescovo si rese conto ben presto di quanto pesanti fossero le ingerenze dell’autorità civile in materia religiosa.

La mutata situazione politica aveva ridato respiro a molte delle iniziative cattoliche. Così ripresero vita anche gli Oratori mariani che avevano conosciuto anni di silenzio e di inattività in tutta la città.

Con la caduta del dominio francese, don Gaspare si buttò nuovamente nell’attività con i giovani. A dire il vero, non aveva mai tralasciato questa particolare attenzione perché già nel 1810, poco dopo il suo arrivo a San Fermo, aveva avviato nella parrocchia un Oratorio mariano, anche se l’attività era alquanto ridotta a causa della continua sorveglianza della polizia.

Da san Fermo partì poi la spinta per la diffusione degli Oratori in tutta Verona.

“Non vi era chiesa della nostra città – narra il biografo – o parrocchiale o sussidiaria che non avesse aperto un Oratorio ai propri giovani”.

 

ALLA SCUOLA DI DIO

La grave malattia che l’aveva colpito nel 1812 non era stata del tutto vinta. Nell’estate dell’anno successivo lo troviamo convalescente per un breve periodo a Colognola ai Colli, dai conti Nichesola, suoi zii. Così nel 1814, e poi nel 1815, altre ricadute gli fecero comprendere che la sua salute doveva essere riguardata. Alla Naudet scrive in quel periodo: “Io mi vado rimettendo pian piano. Vostra Signoria preghi, per carità, ch’io cavi frutto dalla scuola che il Signore si degna di farmi” (1 giugno 1814).

La sofferenza è vista come una scuola che Dio sta facendo al suo alunno: un tema che diventerà caro al Bertoni perché gran parte della sua vita sarà segnata da sofferenze e dolori di ogni genere.

 

LE MISSIONI AL POPOLO

Il 1816 segnò una svolta decisiva nella vita di don Gaspare. L’idea di dare avvio ad un’esperienza di vita religiosa con alcuni compagni si faceva ogni giorno più chiara. Nel 1814 erano stati ordinati sacerdoti quattro suoi discepoli che, in diversi modi, si sarebbero profondamente legati a lui. Erano i chierici Nicola Mazza, Giovanni Maria Marani, Luigi Bragato e Gaetano Brugnoli. Il primo avrebbe dato vita ad un’opera particolare in favore dei giovani, capaci ma poveri, che diversamente non avrebbero avuto modo di completare gli studi. Gli altri tre sarebbero stati tra i primi compagni alle Stimate.

Nel maggio del 1816 un’altra esperienza particolare illuminò il progetto che pian piano Dio stava rivelando a don Gaspare: la grande missione di San Fermo. Collaboratore del canonico Luigi Pacifico Pacetti, missionario apostolico (titolo con cui la Santa Sede insigniva chi predicava le missioni al popolo), il Bertoni nell’occasione lo seppe affiancare “nella felicità dell’esposizione e lo superava nell’unzione e nell’indurre l’uditore ad effettuare il proposto ravvedimento” (Padre Cesare Bresciani, suo contemporaneo). Lo stesso Bresciani testimonia come nella circostanza vide accorrere presso il Bertoni, desiderosi di ascoltarlo, personaggi illustri del mondo di allora: il Pindemonte, il Del Bene, l’Avesani, il Trevisani e il Cesari.

Fu una missione che la città di Verona ricordò a lungo per il grande bene che operò tra i fedeli. Il progetto del Bertoni si arricchiva di un nuovo campo di apostolato: la predicazione delle missioni al popolo.

ALLE STIMATE

Il 4 novembre 1816, don Gaspare Bertoni entrava alle Stimate. I locali, con la chiesa annessa, erano stati acquistati tre anni prima dal signor Giuseppe Bellotti, mugnaio. Appartenevano al Demanio che li aveva requisiti alla “Confraternita delle Stimate di San Francesco” dopo la soppressione di tutte le istituzioni cattoliche nel 1808. Il buon mugnaio aveva avviato una scuola per i ragazzi poveri della città nel 1815, ma una grave malattia lo stroncò in poco tempo: il 27 luglio del 1816, dopo aver nominato don Nicola Galvani legatario dei locali delle Terese, delle Stimate e dei Derelitti, si spense a soli 31 anni di età.

Il 17 agosto di quell’anno, il Bertoni comunicava con una lettera la sua gioia a Leopoldina Naudet perché l’arciprete Galvani gli ” aveva offerto le Stimate per dare vita ad una congregazione di preti che vivano sotto le regole di Sant’Ignazio”. Contemporaneamente, erano state offerte le Terese alla Naudet che dava inizio alla prima comunità il 9 novembre. L’attesa paziente del Bertoni e della Naudet era finita: fiorivano a Verona due nuove istituzioni destinate ad operare un gran bene per tutta la Chiesa.

Con il Bertoni entravano alle Stimate, in quel freddo 4 novembre, anche don Giovanni Maria Marani, suo vecchio allievo, e il tornitore Paolo Zanoli, appena ventitreenne, di San Fermo. Un mese più tardi si aggiungerà al piccolo drappello anche don Michele Gramego che con il suo spirito gioviale sarà la “delizia della nascente congregazione”. Il 1 gennaio sarà la volta di don Matteo Farinati, piuttosto taciturno, ma uomo tuttofare.

 

INIZI DI AUSTERITÀ

Gli inizi furono duri. La chiesa e i locali annessi avevano bisogno di immediati restauri perché per anni, dopo la soppressione della ” Confraternita delle Stimate “, quegli ambienti erano rimasti chiusi ed abbandonati. La piccola comunità prese alloggio nella casa del custode, dietro la chiesa, nel vicolo Stimate: un ingresso a volto con pozzo e cantina, una cucina con un ampio focolare al piano terreno e due camere al piano superiore. A questi disagi si aggiunsero il freddo pungente, che in quell’anno si fece sentire molto presto con ghiaccio e neve, e una tremenda carestia che aveva colpito Verona. L’austerità che contraddistinse la comunità agli inizi non fu temporanea: il Bertoni la volle come distintivo per tutta la vita. D’altra parte, era la prima comunità che nasceva a Verona “secondo lo stile dei religiosi” dopo la soppressione napoleonica di tutti gli ordini.

Anche i nuovi “padroni”, i cattolicissimi austriaci, non vedevano di buon occhio le istituzioni religiose. Tuttavia la nuova comunità si giustificava per l’opera sociale in cui era impegnata: una scuola per i ragazzi poveri della città.

I primi giorni servirono per sistemare in qualche modo gli ambienti e raccogliere le iscrizioni. Dopo nove giorni, il 13 novembre, si apriva ufficialmente la scuola “Alle Stimate”: 48 alunni, divisi in due classi: una elementare, affidata a don Marani e sistemata nel coro della chiesa, e una classe di “latino” che don Gaspare guidava nella sagrestia. Quei ragazzi, cui egli aveva donato gli anni più belli della sua freschezza sacerdotale negli Oratori Mariani, ora li ritrovava scolari di “grammatica” in una sagrestia diroccata. Non aveva perso il gusto della loro compagnia, delle risate spontanee e chiassose, degli scherzi arguti e delle battute pronte. Quello che gli stava a cuore era la formazione umana e cristiana di quei ragazzi, pronti ad affrontare la vita da uomini di fede, disposti anche, se chiamati, a seguire Dio più da vicino. Di questo primo esiguo gruppo, due sarebbero diventati in seguito sacerdoti.

 

RESTAURI

Nel marzo del 1817, don Luigi Dalla Rizza, che occupava la casa annessa alla chiesa delle Stimate, trovò un’altra sistemazione. Si resero così disponibili alcuni locali, indispensabili ormai per la vita della comunità che andava crescendo: due piccole camere, una cucina e una sala da ritrovo, detta del Capitolo.

Nella primavera di quell’anno furono sistemate le vetrate della chiesa e si iniziarono i lavori del tetto. Il restauro procedeva lento, anche se , nei momenti liberi, i padri si prestavano come manovali per accelerare i tempi.

Il secondo anno le Stimate iniziarono con ottanta alunni. Il lavoro cresceva e la Provvidenza aveva inviato, nell’ottobre del 1817, un altro prete alla nascente comunità, don Gaetano Brugnoli, architetto, che si rivelerà preziosissimo per la ristrutturazione dei poveri locali.

 

LE “VISITE” DI DIO

Frequenti attacchi di febbre costringevano don Gaspare a letto per periodi anche prolungati. L’abbandono alla volontà di Dio si manifestò in lui soprattutto durante la malattia. Non si ribellò mai, non imprecò mai per questi contrattempi; li vedeva anzi come una prova amorosa di Dio che veniva a visitarlo: Non fu il solo della comunità ad essere provato. Nell’ottobre del 1818 si era aggiunto al piccolo drappello il figlio prediletto del Bertoni, don Luigi Bragato, che nel giugno successivo dovette rientrare in famiglia per malattia. Anche don Matteo Farinati, inviato ad assistere i malati di tifo, fu colpito da tremendo morbo.

Ritornò al paese natio, Alcenago, sulle ridenti colline della Valpantena, in un estremo tentativo di cura. Fu tutto vano. Il 17 settembre del 1820 si spegneva serenamente il primo martire della carità della piccola comunità.

 

DIETRO UNA CARRIOLA

Nonostante queste prove l’attività apostolica dei “preti delle Stimate” non conosceva soste. Oltre che nella scuola, che contava oltre un’ottantina di iscritti, i preti erano impegnati nel ministero della predicazione e delle confessioni nella parrocchia di S. Fermo. Intanto, dietro segnalazione del Canonico Pacetti, don Gaspare fu insignito dalla Santa Sede del titolo di “Missionario apostolico”: un segno che indicava la strada da percorrere alla nascente Congregazione.

La chiesa delle Stimate era stata rimessa a posto e aperta al pubblico. L’impegno, anche manuale, non aveva risparmiato nessuno, dietro l’esperta direzione dell’architetto don Gaetano Brugnoli. Lo stesso don Gaspare, nel ricordo di un testimone oculare, fu visto spesso “con la carriola in mano a far da manovale”.

La pala dell’altare maggiore era un prezioso dipinto di un autore ignoto e raffigurava lo sposalizio di Maria e Giuseppe. Il Bertoni affidò l’opera nascente alla loro protezione e li indicò ai suoi figli come modelli e patroni.

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IL POVERELLO DELLE STIMATE

Il 14 marzo del 1822 era entrato alle Stimate don Francesco dei Conti Cartolari. Abbandonate le ricchezze e le comodità della nobile famiglia veronese di cui, come primogenito, era diventato un anno prima amministratore, scelse la povertà delle Stimate, affascinato dallo stile di vita del Bertoni. Dotato di notevoli capacità, preferiva sempre gli uffici umili, ripetendo: “Questo è il mio panetto!”

Il regime austero di vita non cambiò con il nuovo arrivato. Fratel Zanoli continuò a preparare le sue “squisite” pietanze vegetariane. E don Francesco gustava quel cibo sempre troppo scarso con un senso di gratitudine per chi glielo offriva. Per confonderlo bastava ricordargli la nobiltà dei suoi natali. Il “poverello delle Stimate” sapeva godere di fronte a tutte le privazioni, perché qui “aveva trovato il tesoro nascosto nel campo”.

 

PASSIONE PER I GIOVANI

Il 25 luglio del 1824 entrava don Modesto Cainer. Gli ambienti dell’opera, dopo l’apertura della chiesa al pubblico, erano diventati del tutto insufficienti anche perché, nel 1823, le scuole erano giunte a formare un ginnasio completo con circa cento e trenta alunni. Fu allora che l’architetto Brugnoli progettò la costruzione di una parte del convento per l’abitazione dei padri: gli scolari avrebbero così potuto disporre di aule e di spazi più ampi per tutte le loro attività. La passione per i giovani moltiplicava le iniziative di don Gaspare che decise di istituire, dietro l’invito del parroco, anche alle Stimate un Oratorio mariano. Divenne per gli altri Oratori della diocesi un punto di riferimento costante: ogni domenica mattina, alla messa seguivano il catechismo e altre pratiche di pietà.

Nel pomeriggio si trasformava in ricreatorio: qui allora confluivano da tutta la città i ragazzi che trovavano ampi spazi per i loro giochi nei prati davanti alla chiesetta delle Stimate. In mezzo a loro c’erano sempre i preti di don Gaspare per animare un gioco, frenare una lite, guidare alla fine le “decurie” alla ritirata per chiudere la giornata in chiesa, con il canto degli inni sacri dell’oratorio.

 

GIOIA D’ESSERE POVERI

Don Gaspare era particolarmente attento alla sua comunità. Con la parola, ma soprattutto con una vita austera e povera, aveva dato l’impronta di un’esperienza tipicamente “religiosa”. Eppure non mancano momenti di gioia e di allegria tra i preti delle Stimate, anche se lo stile di vita ‚ rigido e severo. Don Gaspare vuole i suoi figli “monaci in casa e apostoli fuori”, uomini di preghiera e di studio perché siano preparati ai vari tipi di apostolato cui sono chiamati. Il luogo stesso delle Stimate, poco fuori le mura, ma lontano dai rumori e dalle distrazioni mondane della città, si prestava ad una vita di intenso raccoglimento e di silenzio. Al mattino il convento, che andava prendendo un volto sempre più preciso, era invaso dalle grida festose degli alunni; ma nel pomeriggio diventava deserto. Non c’erano per i preti della nascente Congregazione delle regole scritte. Erano sufficienti i cenni di vita del loro Padre per guidare i primi passi verso la perfezione. Nelle memorie della comunità di allora si legge: “A mensa, dopo un po’ di minestra condita con lardo, c’era un pezzetto di formaggio simile, per forma e quantità, ad un dado comune. Il padre Gramego, con aria faceta, scuotendo nel cavo della mano come se giocasse ai dadi, lo gettava sulla tavola dicendo: “due! sei!” spargendo il condimento di una innocente ilarità su quella mensa davvero poco ridente”.

 

SENZA UN LAMENTO

Il 1824 segnò un’altra tappa dolorosa nella vita di don Gaspare. La gamba destra si gonfiò rapidamente e all’altezza della tibia, comparve un piccolo tumore che si estese progressivamente fino al ginocchio. Il medico, lo zio Giuseppe Ravelli, tentò all’inizio la cura con impacchi, ma senza beneficio. Si decise per l’intervento chirurgico. Fu chiamato il celebre dottor Luigi Manzoni che tentò di sconfiggere il male. I risultati furono disastrosi anche per le terribili sofferenze a cui era costretto il paziente.

È da ricordare che a quel tempo non esistevano anestesie di alcun genere: si incideva nella carne viva finché il paziente era in grado di sopportare il male. Don Gaspare affrontò questa prova con una serenità e con una forza d’animo incredibile. Non usciva mai un lamento dalle sue labbra, ma solo qualche invocazione o una preghiera. Ci fu una sola occasione in cui si videro le lacrime rigare il suo volto: il chirurgo, per togliere la carie dall’osso, aveva forato il femore. Gli interventi, che si ripeterono a intervalli sempre più frequenti, lo lasciavano in uno stato di debolezza estrema.

La scuola a cui Dio l’aveva chiamato, quella della sofferenza, non fu mai vista come una condanna, ma come una croce preziosa che avrebbe maturato nel tempo frutti abbondanti di bene.

A lunghi periodi di immobilità assoluta si alternavano momenti in cui poteva parzialmente riprendere la sua attività, anche se ridotta. Ma il male non lo lasciava.

“Sono tornato fermo in letto”- scriveva nel maggio del 1826 alla Naudet – “sia benedetto Iddio! Egli mi vuole ferito, non morto, perché io possa servirlo e fare quella penitenza che mi è necessaria”.

ALL’ALTARE DEL CROCIFISSO

Alle Stimate era diventata tradizionale la celebrazione della Passione ad ogni venerdì. Dopo il canto di alcune antifone, don Gaspare veniva portato nel suo seggiolone all’altare del Crocifisso per la meditazione che durava circa mezz’ora. Seguiva poi l’adorazione delle cinque Piaghe con alcune preghiere appropriate. Chi meglio di quell’uomo “piagato” e sofferente poteva addentrarsi nella contemplazione del mistero della croce? Sarà questo un altro tipico filone della sua spiritualità, che il Bertoni vorrà trasmettere ai suoi figli.

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La malattia non sembrava più abbandonarlo. Nel maggio 1827 scriveva: “Il Signore mi trattiene sotto i ferri e i coltelli. Sia benedetto ! Mi basta che egli sia servito”.

Verso la fine di quell’anno sembrava che ogni speranza fosse perduta. Tutta la città di Verona fu mobilitata per chiedere la grazia. E la grazia arrivò. Nel febbraio del 1828 don Gaspare iniziò ad uscire dal letto. Dopo undici mesi poteva tornare a celebrare la santa Messa. La convalescenza fu lunga.

Durante tutto quell’anno fu costretto più volte a letto ma alla fine, anche se la salute continuò ad essere sempre malferma, poté tornare ad una vita normale.

 

IL NUOVO VESCOVO

L’11 agosto del 1827 si spegneva dopo un ministero pastorale appassionato ed instancabile Mons. Innocenzo Liruti. Aveva guidato la diocesi di Verona per quasi vent’anni ed aveva avuto il grande merito, grazie alla sua tenacia, di rinnovare profondamente l’istituzione del seminario e di operare un gran bene tra i suoi sacerdoti.

Il suo successore, mons. Giuseppe Grasser, tirolese di Bressanone, entrava in città quasi due anni dopo, il 25 marzo del 1829. Le prevenzioni, anche tra il clero, non furono poche. Oltre al governo civile e militare dell’Austria, ora si aggiungeva anche quello ecclesiastico. Il nuovo Vescovo si rivelò ben presto pastore capace e preparato. In quella primavera il corso di Esercizi Spirituali al clero fu tenuto da don Gaspare. Il nuovo Vescovo volle essere presente alla chiusura e fu in quell’occasione che incontrò (per la prima volta) l’umile prete delle Stimate. Nacque più che un’intesa tra i due uomini di Dio. L’ammirazione di Mons. Grasser per il Bertoni e la sua opera era talmente grande che un giorno esclamò: “Non mi farei alcuna meraviglia se, sopravvissuto al mio don Gaspare, lo vedessi proclamato santo dalla Chiesa e destinato agli onori degli altari”.

Fratel Paolo Zanoli fu fedele testimone delle frequenti visite del Vescovo al Bertoni alla ricerca di consigli : “Veniva in carrozza verso le quattro del pomeriggio e si faceva condurre in episcopio alle otto”.

 

CON NICOLA MAZZA

Abbiamo già ricordato le insigni figure di Maddalena di Canossa, Carlo Steeb, Pietro Leonardi, Leopoldina Naudet, le cui opere ancora oggi continuano in tutto il mondo a rendere operosa la carità di Cristo. Tutti, in un modo o nell’altro, erano entrati nella vita del Bertoni.

Ma la Chiesa veronese doveva ancora esprimere altre figure di grandi uomini di Dio. Don Gaspare era direttore spirituale di don Nicola Mazza da vent’anni quando, nel 1829, questi diede inizio alla sua opera ospitando in una camera presa in affitto alcune ragazze povere e affidandole ad una buona signora che facesse loro da madre.

Ma la Chiesa veronese doveva ancora esprimere altre figure di grandi uomini di Dio. Don Gaspare era direttore spirituale di don Nicola Mazza da vent’anni quando, nel 1829, questi diede inizio alla sua opera ospitando in una camera presa in affitto alcune ragazze povere e affidandole ad una buona signora che facesse loro da madre.

Quando il numero delle ospiti andò aumentando rapidamente, il Mazza volle chiedere consiglio al suo direttore spirituale che lo incoraggiò a riceverle e a non porre limiti alla Provvidenza. In pochi anni il Mazza sistemò in alcune famiglie più di centoquaranta ragazze che erano in stato di abbandono. Un giorno si presentò un caso particolare all’intraprendente sacerdote veronese. Don Nicola Olivieri, un santo sacerdote di Genova, aveva riscattato dalla schiavitù alcune ragazze nere e, non sapendo a chi ricorrere, si affidò al Mazza. Costui era deciso a rifiutarle, ma il parere di don Gaspare fu diverso.

“Ma cosa farò con queste schiave nere quando saranno adulte?” obiettò don Mazza. “Dove potrò mandarle se non vorranno rimanere nell’Istituto?” “Vedrai che Dio provvederà senza dubbio”, fu la risposta di don Bertoni. Stava prendendo corpo un’opera che qualche decennio più tardi il grande Comboni avrebbe portato a termine: l’Istituto per le missioni africane.

 

IL ROSMINI E LA CAMPOSTRINI

Qualche anno prima anche Antonio Rosmini, di Rovereto, era venuto in visita al Bertoni per chiedere consiglio circa la fondazione dei suoi “Sacerdoti della carità”. Il suggerimento era venuto da Maddalena di Canossa che aveva indirizzato l’insigne filosofo all’umile prete delle Stimate perché coltivava in cuor suo il sogno di veder nascere, accanto alle “Figlie della Carità”, il ramo maschile. Il Bertoni lo incoraggiò, prima a voce e poi per iscritto e continuò anche in seguito a sostenere e pregare per l’opera che lentamente si andava configurando. Quanta stima il Rosmini nutrisse per il Bertoni lo testimonia una lettera al fratello dove dice: “Tengo don Bertoni per un uomo santo “.

A Verona anche Teodora Campostrini aveva avviato l’opera delle “Sorelle Minime della carità di Maria Addolorata” dopo un anno trascorso fra le Visitandine di Salò e un periodo più lungo al Ritiro Canossa. Il Bertoni, come consigliere, le garantì sempre la necessaria assistenza “nel dar ordine e forma religiosa al nascente istituto e nel redigere e perfezionare le sue regole”.

 

COMUNITÀ IN CRESCITA

La comunità delle Stimate intanto si andava ingrossando. L’11 novembre del 1829, dopo poche settimane dalla sua ordinazione sacerdotale, vi entrava don Francesco Benciolini, giovane prete pieno di entusiasmo e di amabilità. Il 2 settembre dell’anno successivo era la volta di don Innocente Venturini che sarebbe diventato impareggiabile catechista del popolo, specialmente in lingua dialettale. Il 27 marzo del 1831 entrava nel silenzio delle Stimate don Vincenzo Raimondi, professore di teologia, suscitando meraviglia e ammirazione in tutta Verona. Facevano parte della comunità anche due chierici, Carlo Fedelini e Luigi Biadego che, conclusi i corsi di teologia, proseguirono la loro formazione scientifica che l’avrebbero continuato anche dopo l’ordinazione sacerdotale. Il Bertoni non aveva nessuna fretta di ordinarli preti; attuava così quel proposito che poi codificherà nelle costituzioni: “In questa Congregazione che ha per fine non solo il contemplare per sé ma anche l’insegnare agli altri le verità contemplate, è necessaria una scienza non ordinaria ma perfetta di tutto ciò che si riferisce alla Fede e alla Morale; e quindi è pur necessario che i religiosi chierici di questo istituto si applichino ad acquistare perfettamente una tale scienza” (Costituzione n. 49).

E ancora: “In ogni singolo ramo del sapere vi sia qualcuno che si applichi con studio particolare per più lungo tempo e con maggior diligenza, essendo ciò di somma utilità per i vari servizi da prestare alla Chiesa secondo le diversità dei tempi e delle circostanze” (Cost. 57).

Il 22 aprile del 1834 il padre Gramego segnala il ventesimo ingresso alle Stimate. E’ un giovane di 17 anni, Giovanni Battista Lenotti, che il Bertoni accolse “con tutta l’espansione del suo cuore fraterno”. Qualche mese dopo, il 29 luglio, era la volta di un altro studente, Luigi Ferrari. “Questo colombino cosa farà? Vedremo se scamperemo” annota ancora il cronista don Gramego.

 

“ACCOGLIENZA AMOREVOLE”

Lo stile di vita della comunità continuava ad essere sobrio ed essenziale. Il Bertoni, costretto talvolta a letto a causa della malattia che ogni tanto tornava a farsi sentire, aveva a cuore soprattutto la concordia e la fraternità dei suoi figli.

Basta per tutte la testimonianza del veneziano don Marcantonio Cavanis (fondatore col fratello don Antoniangelo dei “Chierici secolari delle scuole di carità”) che faceva spesso visita al Bertoni: “La comunità degli esemplarissimi religiosi delle Stimate diretti dal padre Bertoni ci ha fatto per sua bontà un’accoglienza amorevolissima ed è tutta impegnata a pregare per noi”.

Delle numerose esortazioni che familiarmente don Gaspare teneva ai suoi preti, abbiamo traccia nelle memorie scritte di don Benciolini che in dialetto annota: “El sior don Gasparo el n’ha esortado a no tacarne ale consolazioni presenti nemmeno de cose spirituali, ma ala beatitudine eterna, ed a tegner el cor fiso in cielo. Così gavaremo: 1. più libertà di spirito; 2. più meriti; 3. più opere buone; 4. daremo più bon esempio” (Il signor don Gaspare ci ha esortato a non attaccarci alle consolazioni presenti, nemmeno delle cose spirituali, ma alla beatitudine eterna, e a tenere il cuore fisso in cielo. Così avremo: 1. più libertà di spirito; 2. più meriti; 3: più opere buone; 4. daremo più buon esempio).

 

CON L’IMPOSIZIONE DELLE MANI

Nel 1833, mons. Luigi Castori, Pro-Vicario di Verona, fu ridotto in fin di vita da una gravissima malattia. Una profonda amicizia lo legava a don Gaspare che, conosciuta la cosa, lo andò a visitare e gli impartì la sua benedizione. Le condizioni del malato mutarono rapidamente ed egli si trovò ben presto guarito. La notizia si diffuse in breve per tutta la provincia.

“Era l’agosto del 1834 – scrive il signor Tuboldini di Stallavena – quando mio figlio Marino, ancora in tenera età, dopo aver perso la madre, cadde gravemente ammalato. Il medico che lo curava e ne conosceva l’estrema fragilità, dichiarò “incurabile il morbo e disperata la guarigione”. Il mio cuore, addolorato per la morte di altri miei figli, temeva di perdere anche questo. Mi venne alla mente allora quanto era accaduto a mons. Castori. Mandai subito a chiedere una visita di don Gaspare per il malato e fui esaudito. Venne, lo vide, pregò, lo benedisse, lasciandoci pieni di speranza. La mattina seguente il medico trovò completamente cambiato lo stato di salute del ragazzo. Dopo pochi giorni di convalescenza, fu completamente guarito”.

Don Giacomo Accordini, ammalatosi gravemente, fu visitato da don Bertoni che lo benedì e lo esortò a sperare in Dio. L’infermo recuperò in breve la salute ormai disperata. Il dottor Francesco Vasani, medico anche alle Stimate, attestò che solo grazie all’imposizione delle mani di don Gaspare e alle sue preghiere, venne miracolosamente guarito da una malattia mortale.

 

ALLA CORTE DI VIENNA

Don Luigi Bragato, come ricordato in precedenza, fu forse il figlio prediletto di don Gaspare. Era entrato alle Stimate ancora nel 1818, ma aveva dovuto, l’anno successivo, rientrare in famiglia per motivi di salute. Tornò definitivamente nel 1828 e si mostrò un vero apostolo dei giovani sia negli Oratori sia nelle scuole, missionario appassionato nelle sue predicazioni al popolo e al clero, direttore spirituale ricercato per il suo carattere dolce e paziente.

Ma la sua vita era giunta ad una svolta impensabile. Maria Anna di Savoia, sposa a Ferdinando I degli Asburgo, divenuto Imperatore nella primavera del 1835, chiese come confessore personale un prete italiano. L’Imperatore girò la richiesta al Vescovo austriaco Grasser che corse alle Stimate e si trattenne in un lungo colloquio con don Bertoni e don Bragato. Passarono alcuni giorni durante i quali si vedevano i più anziani conversare segretamente tra loro. Alla fine fu riunita tutta la comunità e don Gaspare comunicò la decisione: “Il nostro fratello don Luigi Bragato si dividerà da noi e partirà per Vienna…”.

L’avvenimento fu salutato con gioia, anche se non fu facile per il Bertoni privarsi del figlio amato, su cui contava per il futuro dell’opera, per inviarlo lontano in una missione che non rispondeva propriamente ai suoi programmi. Il Bertoni impose al Bragato due sole condizioni: la sua prestazione a corte doveva essere del tutto gratuita e non doveva essere insignito di alcun titolo onorifico. Il ministro Metternich, però, non trovò dignitoso che un “addetto” all’Imperatrice fosse senza onorario. Allora don Gaspare proibì al Bragato di inviare anche un solo centesimo alle Stimate: il denaro doveva essere impiegato per i suoi bisogni e per opere di bene. Il padre Bragato visse per quaranta anni in mezzo allo sfarzo imperiale senza cambiare nulla dello stile di vita umile e modesto iniziato alle Stimate. Alla sua morte fu detto: “Passò beneficando e morì povero”. La sua tomba si trova ancor oggi nel cimitero di Praga.

 

UNA COMUNITÀ DI SANTI

La vita della comunità delle Stimate fu ben illustrata da uno scrittore tedesco, il sacerdote don Luigi Schlor, che visse a Verona per nove mesi tra il 1837 e il 1838. Cappellano della corte imperiale di Vienna e confessore di Ferdinando I e del fratello di questi, l’Arciduca Francesco, fu enormemente impressionato dal fiorire delle numerose opere di carità per merito di tante persone sante e raccolse le sue impressioni in un volumetto dal titolo: “La filantropia della fede” ossia “La vita della Chiesa di Verona in questi ultimi tempi”.

Parlando dei preti delle Stimate scrive: “Parecchi preti secolari e pii e in gran parte benestanti, si sono riuniti vent’anni fa a Verona, per perfezionare se stessi nella vita comune del chiostro e nell’agire comune, e per lavorare alla salute degli altri secondo i bisogni e le forze. Per quanto questi sacerdoti facciano della ritiratezza e del nascondimento il carattere principale del loro vivere e del loro operare, tuttavia è così grande ed evidente lo splendore della loro virtù e l’efficacia del loro zelo, che sono amati e profondamente stimati in tutta la città, dal clero e dal popolo, come preti pressoché santi. Il loro superiore, don Gaspare Bertoni, un venerando e amabile vegliardo, assai versato nelle scienze teologiche e specialmente nella guida delle anime, è un oracolo per quelli del luogo e per i forestieri che anche da città lontane fanno ricorso a lui per iscritto o vengono a lui di persona per chiedere consiglio in materie teologiche o negli interessi della coscienza. Or questo uomo di tanto senno e pietà sa con tale soavità di maniere e insieme con fermezza condurre la sua comunità, che un solo spirito li anima tutti, una sola vita in tutti per dir così si diffonde. Se ti fai a conversare con loro, trovi che ciascuno nel pensare, nei sentimenti del cuore, nel portamento esteriore fa il ritratto fedele dell’altro. Se vuoi sapere che cosa principalmente si renda in loro notevole, è umiltà, carità ,tratto affabilissimo. Vivono assai poveri e mortificati. Semplicissima è la stanza ed ogni loro masserizia: ma per tutta la casa vedi tale uno studio di nettezza che è un diletto a mirarla. La piccola chiesa, già appartenente ad una confraternita francescana, è restaurata a meraviglia, e sempre riluce di mondezza. In certe solennità, il Clero della città si reca con particolare piacere in questa chiesa per celebrare la Santa Messa. Gli stessi sacerdoti liberi predicano ogni settimana nella loro chiesa e ascoltano le confessioni, ma di soli uomini: Doni non ne accettano da nessuno, di qualunque specie. Un disinteresse così grande che tanto si addice ai sacerdoti, li mette in grande riverenza presso tutti. E veramente non saprei qual nome dar loro più conveniente che quello di “perla nascosta” del clero veronese”.

COMMOZIONE DEL PAPA

Nel 1838, su pressione del Vescovo Grasser che vedeva la piccola congregazione prendere un volto sempre più preciso, il Bertoni decise di acquistare alcuni beni ecclesiastici che lo Stato aveva incamerato e che ora poneva in vendita. Si trattava di un fondo a Sezano e a Stallavena già possesso dei Monaci Olivetani. Due giorni dopo l’acquisto, don Gaspare, metteva il tutto ai piedi del Santo Padre, Gregorio XVI, con una lettera toccante per lo spirito di distacco e di santo abbandono che così si concludeva: “È ferma volontà mia e dei miei compagni spenderci tutti nel servire Nostro Signore e la sua Chiesa, se di tanto Egli ci fa degni”. La fede viva e il disinteresse per i beni manifestati nello scritto commossero il Papa.

In una udienza a due sacerdoti veronesi, mostrando la missiva del Bertoni, disse: “Vedete qui cosa mi scrive un prete veronese: questa lettera mi ha fatto piangere”. Il Pontefice accordò ogni cosa secondo la richiesta.

 

I MERLI DI DON GRAMEGO

Sezano si trova poco fuori Verona, nella colorita Valpantena. Per quanto i padri e i fratelli magnificassero l’amenità del luogo, non c’era verso di convincere il Bertoni a farvi visita. Un giorno, dopo ripetute insistenze, si decise a partire in carrozza per il monastero. Ma appena uscito da porta Vescovo, ordinò al cocchiere di voltare il cavallo e di ricondurlo a casa. Alla sua scuola anche i figli imparavano ad abbracciare la rinuncia con animo sereno. Il padre Michele Gramego aveva portato dalla campagna di Sezano una bella nidiata di merli. Quando furono in grado di volare, don Gaspare li volle vedere e, portatili alla finestra : “Andate con Dio – disse aprendo la gabbia – che il signor don Gramego vi d… la libertà”. E don Michele pronto a ringraziare il superiore.

 

VISITA INASPETTATA

Il 6 settembre 1838, Ferdinando I veniva incoronato re del Lombardo Veneto nel duomo di Milano. Il 26 dello stesso mese, l’Imperatore, accompagnato dalla sposa Maria Anna e da tutto il seguito, entrò a Verona per rimanervi alcuni giorni.

Per le Stimate fu un grande motivo di festa: dopo tre anni la comunità poteva riabbracciare il caro confratello di Vienna, don Luigi Bragato. Il Gramego annota: “Il 26 settembre, ritornando da Milano dopo l’incoronazione, don Bragato si tratteneva qui con noi tre o quattro giorni, disturbato usque ad nauseam ( fino alla noia )”. La commozione del Bertoni fu grande nel rivedere l’amato figlio, ma ancora più grande fu lo stupore che lo colse quando don Bragato lo informò che i sovrani, e specialmente l’Imperatrice, erano intenzionati a fargli visita.

L’incontro avvenne il 28 settembre. I sovrani si mostrarono compiaciuti per il gran bene che la comunità delle Stimate operava a favore dei giovani con le scuole e l’Oratorio. L’Imperatrice volle visitare anche la camera del Bertoni per conversare privatamente con il santo uomo di Dio. Le rimase impressa soprattutto l’austerità e l’essenzialità delle suppellettili: un letto, un tavolo e un grande crocifisso.

 

IL FIORE DEL CLERO VERONESE

La stima di santità che circondava ormai don Gaspare si allargava sempre di più. Durante le solenni feste per il ritrovamento del corpo del Patrono di Verona, San Zeno (15-21 agosto1839), intervennero con tre Pontificali anche il Patriarca di Venezia e i Vescovi di Mantova e di Treviso.

Celebri oratori si alternarono nella stupenda basilica romanica di san Zeno per infervorare il popolo alla pietà e alla preghiera. Nonostante gli acciacchi, fu chiamato anche don Bertoni: questo intervento fu quasi il suo testamento spirituale ai veronesi, anche se gli restavano ancora quattordici anni di sofferenze. Dovette infatti rimettersi subito a letto e fu qui che ricevette i vari porporati giunti a Verona per le celebrazioni e desiderosi di conoscerlo di persona: il Vescovo Giambattista Bellè di Mantova, il Patriarca di Venezia Cardinale Jacopo Monico, il Vescovo di Treviso Sebastiano Soldati.

Quest’ultimo, uscito dalla camera, sussurrò ai figli del Bertoni che l’accompagnavano: “Beati voi! Avete per superiore un gran santo!”.

Questa stima è testimoniata anche da padre Carlo Odescalchi, ex Cardinale, che era entrato nel noviziato dei Gesuiti di Verona e che, presentando il Bertoni a mons. Antonio Maria Traversi, confessore del Papa, scrive: “Uno dei più dotti, prudenti e virtuosi ecclesiastici che io abbia conosciuto e che con altri rispettabili sacerdoti da lui diretti fa un bene immenso a questa diocesi”.

Presentando la comunità delle Stimate al cardinale Costantino Patrizi, prefetto della sacra Congregazione dei Vescovi e dei regolari, mons. Giuseppe Bellomi, Vicario capitolare di Verona, scrive: “Sono lo specchio e il fiore del clero veronese per la pietà, per gli studi, per i consigli, per l’esempio e per lo zelo prudente ed instancabile, con edificazione di tutta questa diocesi, sotto ogni riguardo”.

 

LA REGOLA

L’11 maggio del 1841, in una lettera scritta al Bragato, il Bertoni fa cenno all’impegno che, da qualche tempo, lo sta occupando giorno e notte.

“Pregate assai per tutti noi e per quello che sto scrivendo a piccole gocce, se il Signore lo voglia e ne torni a suo onore…”

Dopo lunghi anni di vita comunitaria, il disegno di Dio prendeva volto nelle regole che il Padre voleva consegnare ai suoi figli. L’idea madre gli era venuta ancora nel 1817 quando Propaganda Fide l’aveva insignito del titolo di “Missionario apostolico”. Questa era la vocazione dell’Istituto per cui stabilì come fine “Missionari apostolici in ossequio ai Vescovi” (Costituzioni del Fondatore 1). Era l’ispirazione, avuta durante la straordinaria missione del maggio del 1816 a S. Fermo, che prendeva la sua forma concreta e giuridica. Lo stile doveva essere quello di ” servire Dio e la Chiesa del tutto gratuitamente ” (CF3); ” liberi da dignità, residenze, benefici e da cure perpetue e particolari di anime e di monache(CF4); “ disposti ad andare in qualsiasi posto nelle diocesi e nel mondo” (CF 5); “sotto la direzione e la dipendenza degli Ordinari dei luoghi dove toccherà dar le missioni”(CF 2).

La connotazione particolare che caratterizza queste regole è la comunione fraterna. Delle 314 Regole, ben 128 sono dedicate a questo tema, incominciando da quella che dice: “Tutti abbiano quale scopo e contrassegno dello spirito della loro vocazione, quel detto di Nostro Signore Gesù Cristo: da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avrete amore l’uno per l’altro”(CF187).

 

MORIRE DA SANTI

I figli del Bertoni, modellati sullo stile del Padre, non tradirono mai la loro vocazione alla santità, neppure in punto di morte. Le Stimate dovevano piangere nell’arco di tre settimane la morte dei due membri più giovani. Il 17 febbraio 1842 si spegneva santamente don Luigi Biadego. Aveva 34 anni.Fu l’anima più mistica delle Stimate, candido come un bambino. Tutti i suoi pensieri erano per il Signore, per i Santi Sposi Maria e Giuseppe, per il Paradiso. Nei due mesi di malattia che preannunciavano la sua morte, al confessore che lo voleva confortare, rispose: “Io sono tranquillo e non mi dò pensiero, perché ho già messo tutto nelle mani della Madonna. Ella ci penserà”.

Abituato a servire i malati nella comunità, particolarmente il padre Bertoni durante la sua infermità, si trovava confuso nel vedersi circondato di tante attenzioni e premure. In una delle sue visite, don Gaspare gli ricordò le parole di San Paolo: “Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” ( Rom.14,7-8).

Era la spiritualità del fiducioso abbandono in Dio che, maturata nel Padre, era poi radicata anche nel cuore dei figli. La santa morte, accanto al dolore profondo per la perdita di un confratello così giovane, fu anche di grande consolazione per tutta la comunità, certa di aver acquistato un protettore in cielo.

Tre settimane più tardi moriva il chierico Luigi Ferrari, “giovane di grandi speranze, di bell’ingegno e di memoria tenace”. Era di una bontà angelica, paziente soprattutto nel portare la croce della sua dolorosissima malattia. Per ben centoquindici volte il chirurgo aveva dovuto ricorrere alle incisioni per tentare di curare le piaghe profonde, tra sofferenze indicibili. Il Bertoni , per riaverlo in salute, “spese per lui senza risparmio di sorta”. Una sera l’infermiere gli portò qualcosa che gli servisse di sollievo. “Ma perché queste cose?” disse, guardandolo con un sorriso.

“Io non penso che al Paradiso”. Si spense a 22 anni, la domenica “Laetare”, due giorni dopo la festa delle sante Piaghe di Gesù, anch’egli, come il Divin Maestro, tutto piagato per una scrofolosi indomabile.

Pochi giorni dopo, il 12 marzo 1842, veniva ordinato prete don Giovanni Battista Lenotti, cresciuto e formato dal Bertoni fin dall’età di 17 anni, quando aveva bussato al convento delle Stimate dopo averle frequentate da allievo. Verso la fine del 1843 si ammalò gravemente anche don Modesto

Cainer. In pochi mesi sarebbe stato strappato all’affetto della comunità all’età di quarantaquattro anni. Era entrato alle Stimate nel 1824, poco dopo l’ordinazione sacerdotale, e si era trasformato subito in amoroso infermiere del padre Bertoni, al tempo in cui questi subì numerosi interventi chirurgici alla gamba destra. Il cronista di casa lo definisce “la santa Marta delle Stimate”, e riferendosi al suo amore per gli ammalati, annota: “come tenera madre se li medicava pietosamente”.

 

L’EREDITÀ DELLE VIRTÙ

Don Gaspare celebrò la sua ultima messa il 10 settembre 1843. In seguito rimase per dieci anni, fino alla morte, senza il conforto più caro. Non ci fu una particolare malattia a privarlo della celebrazione dell’Eucaristia, ma le gambe non lo reggevano più e a quel tempo non era concessa la facoltà di celebrare restando seduti.

Questi lunghissimi anni di malattia non furono inoperosi. Era moltissima la gente che accorreva a lui per un consiglio o per la direzione spirituale. Nella sua stanza giungevano soprattutto sacerdoti: anime spesso in difficoltà che deponevano ai suoi piedi dubbi e contrarietà di ogni genere.

Anche la contessa Francesca Borghetti, vedova Cartolari, madre di don Francesco, entrato alle Stimate nel 1822, passava di frequente dal padre Bertoni per consiglio. Quando morì nel 1845, lasciò nel testamento la sua eredità ai preti delle Stimate. Il Bertoni restò fedele ai suoi principi e, con i suoi compagni (tra cui il figlio della contessa) rinunciò ad ogni cosa. Don Francesco avrebbe seguito la madre dopo poco tempo. Fu colpito da violenti dolori al capo. Non sembrava, all’inizio , niente di grave; improvvisamente però “il 3 luglio 1846, dopo cinque giorni di penosa e pericolosa malattia, cioè di encefalite, morì nel bacio del Signore come un angioletto – scrive don Gramego – con tale nostro cordoglio che non so esprimere, lasciando tale odore di virtù e di santità che ci vorrebbe qualcuno a descriverle”. Aveva 51 anni. Il Cartolari lasciava una ingente eredità, valutata sulle 500 mila lire austriache (basti ricordare che con 160 mila lire austriache erano stati acquistati i fondi di Sezano e Stallavena) e la intestava a don Bertoni e, in caso di rinuncia, successivamente al Gramego, al Brugnoli e infine al Benciolini Francesco riteneva che le eredità dei membri dell’Istituto sarebbero state accettate.

Appena il Bertoni conobbe la volontà del defunto: “Oh, quanto a me- disse – non ne voglio un centesimo”. E rivoltosi ai compagni: “Quanto a voi – continuò – pensateci!” Nello stesso giorno fu steso un documento di rinuncia firmato dal padre Bertoni, p. Gramego, p. Brugnoli e p. Benciolini. Allora don Gaspare radunò tutta la comunità nella cappella della Trasfigurazione e, dopo aver acceso le candele, tenne una calda esortazione sulla necessità di seguire Cristo povero. Alla fine si cantò il “Te Deum” di ringraziamento.

Scrivendo qualche giorno dopo al p. Bragato a Vienna, don Gaspare annotava che il Signore aveva fatto dono alla comunità delle Stimate di “mandar fuori di casa le spazzature del p. Cartolari per tenersi l’eredità delle sue virtù”.

 

PADRE DELLO SPIRITO

Il marchese Bonifacio di Canossa, fratello della Santa Maddalena, ed i figli Giovanni e Luigi (quest’ultimo poi gesuita, quindi Vescovo di Verona e Cardinale), oltre a far parte dell’Oratorio delle Stimate, erano visitatori abituali alla camera del Bertoni. Lo stesso Cardinale di Canossa attesterà più tardi: “Quante volte ricorsi al padre Gaspare per averne consigli, conforti e direzione di spirito. Lo trovavo costantemente con un dolcissimo sorriso sulle labbra, benché talora assai sofferente”.

Nel 1850 un altro giovane si era ritirato alle Stimate per qualche giorno di raccoglimento presso don Gaspare, in vista della vestizione ecclesiastica: era Daniele Comboni. Il Bertoni, sempre sofferente nel suo seggiolone, seppe trasmettere al giovane discepolo l’amore per Cristo Crocifisso: “Nessuna delicatezza è concessa a chi si è rivestito di Cristo crocifisso; la veste sacerdotale non deve essere una copertina elegante di comodi personali”. Il Comboni tornerà alle Stimate per farsi esaminare la vocazione missionaria dal p. Marani e per fare gli esercizi spirituali prima di partire per l’Africa, ma i primi insegnamenti di don Gaspare sarebbero rimasti per sempre scolpiti nel suo cuore.

 

“HO BISOGNO DI PATIRE”

Gli ultimi trenta mesi di malattia furono un continuo martirio. Eppure egli trovava sempre eccessive le premure dei medici e dei suoi figli per il male che lo andava consumando.

Era un vero tormento ogni volta che doveva essere sollevato o solo toccato, a causa anche di una profonda piaga di decubito che gli procurava dolori indicibili. Le uniche parole che gli uscivano dalla bocca erano o una preghiera o un’invocazione. Stava salendo lentamente il Calvario: la croce che Dio gli aveva preparato l’aveva inchiodato al letto senza la possibilità di un minimo movimento. Negli ultimi giorni non fu in grado di prendere niente: solo qualche pezzetto di ghiaccio per alleviare l’arsura della febbre. Il mattino dell’ultimo giorno, domenica 12 giugno 1853, il malato chiese la Santa Comunione come al solito. Poi gli vennero meno le forze e cadde in uno svenimento profondo. Il volto divenne pallido e bagnato di sudore freddo. Con uno spruzzo d’acqua fresca riprese i sensi e la parola.

“Padre – gli chiese un fratello – ha bisogno di qualcosa?” “Ho bisogno di patire” furono le sue ultime parole.

Verso le tre del pomeriggio, la campana maggiore delle Stimate annunciava a Verona la morte di un santo. In quel momento tre preti del Bertoni si trovavano in altrettanti Oratori della città per la “dottrina cristiana” alla quarta classe. I “missionari apostolici” erano al loro posto, con i giovani e i ragazzi del popolo ad annunciare le meraviglie del Signore.

P. LIDIO ZAUPA